di Lino Spadaccini
Nel corso dei secoli Vasto ha
dato i natali a personaggi illustri quali letterati, pittori e medici di fama,
ma solo alcuni di essi sono conosciuti a livello internazionale e regolarmente
citati nelle principali enciclopedie: uno di questi è l’esploratore Ernesto
Cordella, morto in Congo nel 1905.
Ancora oggi, sulla facciata di Palazzo Sabelli, in prossimità di Piazza Rossetti, è
murata una lapide con l’iscrizione dettata dall’avv. Giuseppe Marcone, che ne ricorda la memoria, dove, il 16 aprile del 1864, Ernesto Cordella nacque e visse l’adolescenza cresciuto dai genitori Federico, stimato ingegnere, e Isabella Celano.
Ancora oggi, sulla facciata di Palazzo Sabelli, in prossimità di Piazza Rossetti, è
murata una lapide con l’iscrizione dettata dall’avv. Giuseppe Marcone, che ne ricorda la memoria, dove, il 16 aprile del 1864, Ernesto Cordella nacque e visse l’adolescenza cresciuto dai genitori Federico, stimato ingegnere, e Isabella Celano.
Sin da ragazzo, Ernesto
mostrò una particolare inclinazione per le armi e andò a studiare all’Accademia
militare di Torino, dove ne uscì a 19 anni col grado di sottotenente di
artiglieria.
L’anno successivo, nel 1884,
durante il colera scoppiato a Napoli, prestò servizio come volontario della
Croce Bianca e meritò la medaglia d’argento dei benemeriti della salute
pubblica.
Scoppiata la guerra in
Africa, spinto da quello spirito indomito che lo portava a trovarsi sempre
protagonista in prima linea, fu tra i primi a recarsi in Eritrea. Dopo aver
combattuto il 25 febbraio 1896 a Mai-Maret, contro ras Sebhàt, ad Adua si
ricoprì di gloria: dell’eroica artiglieria della Brigata Albertone, fu l’unico
ufficiale superstite.
Ecco come il Cordella descrisse le ultime fasi della
cruenta battaglia: “Gli eventi
precipitavano. L’onda degli Scioani stringeva ormai definitivamente il suo
cerchio di ferro e di fuoco. Colpito al ventre stramazzò l’eroico capitano
Bianchini, cui a compenso della mirabile condotta non volle la sorte
risparmiare la vista dell’orrenda distruzione… Poco dopo anche il tenente
Boretti lo seguiva nel cammino dell’immortalità… Moltiplicaronsi eroicamente il
sergente Tripepi, il caporal maggiore Salto ed il caporale Trainito. Fu
l’ultimo rantolo dell’artiglieria bianca. Colle lancie e colle sciabole in
pugno gli assalitori si precipitarono sui pezzi emettendo urla feroci,
animandosi come ossessi nella loro ebbrezza di sangue. La testa spaccata da un
fendente, cadde alla mia destra il caporal maggiore Salto, mentre il sergente
Tripepi rimaneva svenuto dissanguato per le ferite ed io stesso nella lotta
corpo a corpo venivo ridotto all’impotenza e legato con la mia sciarpa”.
Seguirono tredici mesi di
dura prigionia. Per quasi tre mesi passò da un villaggio all’altro quasi
denudato e a piedi scalzi; la notte dormiva all’aperto sotto la rugiada e la
pioggia, a stento riusciva ad alleviare la fame mangiando erba e bevendo
l’acqua putrida dei pantani.
Furono momenti molto
difficili, ma Ernesto Cordella non si diede mai per vinto e, passati i momenti
duri, cominciò a farsi apprezzare operando per lo sviluppo di quelle regioni
ancora profondamente arretrate, costruendo ponti, nuove strade, insegnando
nuove tecniche di coltivazione dei campi e come costruire una casa.
Alla vigilia del suo rientro
in Italia scrisse alla madre: “Dall’Italia
ho ricevuto e ricevo continuamente belle lettere, esse formano la mia unica
gioia e mi confermano nell’idea che fare il proprio dovere è il maggior vanto
di un uomo. Al mio ritorno sentirete che son degno figlio dell’Abruzzo, e che
mai, come adesso, mi sento di essere vastese…”.
Tornato in Italia, fu promosso capitano e decorato con la medaglia
d’argento al valor militare.
Il continente africano, aveva
affascinato talmente tanto il giovane Cordella, che appena si rimise da una
lunga malattia, il 30 aprile 1903, partì per il Congo con una spedizione belga.
Fu nominato prima comandante a Kasongo e poi a Ponthierville. Per lui
rappresentava una carica prestigiosa perché, fino a quel momento, non era mai
stata affidata ad un ufficiale non belga.
Sempre desideroso di
contribuire alla rivelazione scientifica di quella parte del pianeta ancora
inesplorata, per due anni visitò le terre verso il bacino del fiume Elila, fra
il lago Tanganika e il fiume Congo, percorrendo oltre mille chilometri
attraverso un paese montuoso, abitato da una tribù di nani selvaggi, i Batua,
che avevano già massacrato una precedente spedizione belga di venticinque
uomini.
La spedizione durò ottantotto
giorni, di cui settantacinque di marcia effettiva, e risultò più difficoltosa
del previsto, con gli uomini che quasi non volevano più seguirlo. “Ho fatto appello a tutta la mia energia”,
scrisse in una lettera al fratello Emilio, “e
minacciando quei vili, io solo in mezzo a loro, col revolver in pugno, sono
riuscito a farmi seguire”.
Il desiderio di esplorare il continente africano era troppo forte.
Tutti i disagi passati non erano riusciti a fermarlo, anzi lo avevano stimolato
ancor più, tanto che l’anno successivo organizzò una nuova spedizione, formata
da circa duecento uomini, per l’esplorazione verso il lago Mokoto, non
registrato dalle carte, per Lubutu e Walikale. Ma, quell’ultima spedizione
risultò, purtroppo, fatale per il giovane esploratore, così come reciterà un
giorno il poeta Giuseppe Perrozzi, in una celebre poesia dedicata a Vasto:
E del Cordella, che l'ignoto Elila
scoperse in terra d'Africa lontana,
tu raccogliesti sol le spoglie esangue
scoperse in terra d'Africa lontana,
tu raccogliesti sol le spoglie esangue
della sua carne dal tuo grembo surta.
Nel novembre del 1905, giunti nel villaggio di N’Pena, a 1300 metri sul
livello del mare, Ernesto Cordella si ammalò gravemente di una malattia
tropicale e, dopo una settimana di agonia, il 17 novembre spirò all’età di 41
anni. Con questa parole, il Segretario di Stato del Congo, annunciò la morte di
Ernesto al fratello Emilio: “Un
télégramme que je viens de recevoir de Loanda, m’annonce una bien pénible
nouvelle: celle de la mort de votre regrette frère M. Cordella Ernesto. Il a
succombé près de Walikale, à la suite d’hématurie, le 17 novembre 1905”.
Tre giorni prima della triste data, ormai conscio di quello che sarebbe
poi accaduto, fece testamento dettando il testo al sig. Pratesi e disponendo
che “la mia salma sia trasportata a
Ponthierville e quindi in Italia dove sarà sotterrata a Vasto nel mio paese
natio (Abruzzo)”.
Due anni più tardi, dietro le
insistenti richieste inoltrate alle autorità competenti per riavere in patria
il corpo del nostro concittadino, la bara venne esumata e trasportata in mare
fino a Genova, per poi proseguire in treno fino a Vasto.
La commemorazione funebre fu imponente: davanti al feretro, in legno grezzo del Congo, con una croce metallica realizzata con la fusione di monete congolesi, offerte dagli indigeni, porsero omaggio le più alte cariche cittadine e una folla immensa che non volle mancare all’ultimo saluto a quell’uomo che aveva affascinato le giovani menti vastesi, che avevano seguito le sue tante avventure, ma anche le sue sofferenze, attraverso le pagine del periodico locale Istonio.
La commemorazione funebre fu imponente: davanti al feretro, in legno grezzo del Congo, con una croce metallica realizzata con la fusione di monete congolesi, offerte dagli indigeni, porsero omaggio le più alte cariche cittadine e una folla immensa che non volle mancare all’ultimo saluto a quell’uomo che aveva affascinato le giovani menti vastesi, che avevano seguito le sue tante avventure, ma anche le sue sofferenze, attraverso le pagine del periodico locale Istonio.
Qualche
anno più tardi, la famiglia provvide ad effettuare una consistente donazione
sia alla Società Geografica Italiana che al Gabinetto Archeologico di Vasto.
Questi i preziosi oggetti sistemati dal prof. Luigi Anelli, direttore del
Museo, all’interno delle sale: n.10 lance, di cui 6 con manico di ferro e 4 di
legno, 12 coltelli con guaina, sei coltelli senza guaina, otto frecce raccolte
nel corso dell’esplorazione verso l’Elila, due sciabole indigene, coltello da
getto che si lancia orizzontalmente con forza per colpire più persone, ascia in
rame, tre cinture in pelle, acconciatura indigena (pelle di scimmia) da porre
sul capo, punta d’avorio ricurva (la tromba viene usata in foreste per
chiamare, segnalazioni), otto denti d’ippopotamo, dieci denti di leopardo, due
anelli per salviette lavorati dagli indigeni, due tagliacarte in avorio, un
feticcio in avorio adorata dagli indigeni, un altro feticcio in avorio più
piccolo, due feticci in legno, guscio di tartaruga, pelle di pantera, revolver
del capitano Cordella, spada da comandante, sciabola di ufficiale, ed ancora
album di fotografie, taccuini manoscritti, cartine e tanto altro prezioso
materiale.
La
Giunta Municipale di Vasto, con delibera dell’8 dicembre 1926, ringraziò la
famiglia Cordella per la cospicua donazione e dispose la conservazione dei
cimeli “in una delle migliori sale del
Civico Museo, a ricordo dell’opera svolta dal concittadino illustre”. Oggi
i documenti sono custoditi presso la Biblioteca Mattioli, al contrario dei
reperti, che giacciono abbandonati in qualche stanza buia di Palazzo d’Avalos,
ma che sarebbero molto apprezzati in qualsiasi altro museo degno di questo
nome.
Chiudiamo
questo breve viaggio alla riscoperta del nostro illustre concittadino, con un
bel sonetto scritto il 30 agosto 1907, dal prof. Vincenzo De Lucia:
Pallida morte il funebre lenzuolo
e tu giacevi oscuro in altro suolo,
e de la patria il cor sì ne soffriva!
Ecco la fama, che ti leva a volo,
poi che il tuo frale, e lo spirto
rapiva,
su l’ali della gloria; e fitto stuolo
di cittadini a te lieto plaudiva!..
Nel ciel de’ forti assorto, a immortal
vita,
splendi qual astro di luce vermiglia,
in mezzo ai grandi di tua Istonia avita!
Eroe di libertà, la tua famiglia
Nobilitasti sì, che ognun l’addita
Scuola, che amor d’Italia a noi
consiglia! –
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