Antica
consuetudine abruzzese piuttosto lugubre e ripugnante, importata dai mercanti
baresi, era quella del carnevale morto. Su un carretto sgangherato veniva
sistemato un fantoccio fatto di cenci e di paglia. Intorno c’erano il prete, il
sagrestano e
varie maschere con lumi accesi e grossi campanacci. Dietro il carretto, seguiva la moglie di carnevale, che addolorata piangeva e si strappava i capelli per il marito morto. Tutt’intorno i monelli schiamazzavano e gridavano lagnosamente: “È morto Carnivale, e po’ po’ po’!”.
varie maschere con lumi accesi e grossi campanacci. Dietro il carretto, seguiva la moglie di carnevale, che addolorata piangeva e si strappava i capelli per il marito morto. Tutt’intorno i monelli schiamazzavano e gridavano lagnosamente: “È morto Carnivale, e po’ po’ po’!”.
Antonio
De Nino, nel suo libro Usi e costumi
abruzzesi, vol.II, a tal proposito, annotava: “Si fa, inoltre, un carnevale di cartone, portato da quattro becchini
con pipe in bocca e fiasche di vino a tracolla. Innanzi va la moglie di Carnevale
vestita a lutto e piange, e piangendo ne dice delle grosse! Ogni tanto la
comitiva si ferma; e, mentre la moglie di Carnevale fa la predica, i becchini
fanno una tirata alla fiasca. In piazza poi si mette sopra un rialzo il defunto
Carnevale; e, tra il rumore dei tamburi, gli schiamazzi della moglie e l’eco
della moltitudine, danno fuoco a Carnevale”.
In
alcuni paesi abruzzesi veniva messo un uomo in carne ed ossa all’interno di una
cassa da morto, che ogni tanto si rianimava attaccandosi al fiasco di vino, seguito da un finto prete, con tanto di
acquasantiera e aspersorio, e alcune donne inlacrime,
intente a gridare:
Carnivale, pecchè scì
morte?
Pane e vine non te
mancava;
La ‘nsalata tinive a
l’orte:
Carnevale, pecchè scì
morte?
Ed
anche:
Carnivale, pirchè seì
muorte?
La ‘nsalata tenivi
all’uòrte:
Lu presutte tenivi
appise:
Carnevale, puozz’ esse
accise.
La
versione vastese della mascherata aveva una chiusura più serena. Un pulcinella
enorme, con un cuscino sulla pancia, sotto i vestiti, a dimostrare il troppo
cibo ingozzato, messo su un cavallo bianco, andava verso l’imbrunire per la
città gridando:
“Chi te li maccarune d’avanze!
Ecche la panze! Ecche la
panze!”
E
poi aggiungeva:
“Popolo di Vasto, statti bene!
Stanotte me ne vado!
Arrivederci
st’altr’anno!”.
Il
compianto Giuseppe Pietrocola, ricordava che il corteo terminava al largo della
fontana dove un grosso fantoccio di paglia veniva bruciato fra gli applausi dei
parenti.
Lino
Spadaccini
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