martedì 23 agosto 2016

DOMENICO ROSSETTI (10^ e ultima puntata): gli ultimi anni di vita

BICENTENARIO DELLA MORTE
DI UNO DEI PIU' ILLUSTRI PERSONAGGI VASTESI  

di LINO SPADACCINI
Dopo la breve esperienza in Toscana quale segretario del generale austriaco Conte Starhemberg, Domenico Rossetti torna nella sua amata Parma per trascorrere gli ultimi mesi di vita, segnata da
atroci sofferenze a causa di una terribile malattia contratta proprio in terra Toscana.
In quel periodo, il Rossetti ha il privilegio di assistere all’ingresso in città della nuova duchessa di Parma, Maria Luisa d’Austria, moglie di Napoleone Bonaparte.
Durante la prigionia del marito sull’Isola d’Elba, Maria Luisa visse nel castello di Schöenbrun a Vienna, insieme al generale Neipperg, suo amante, anche se, per salvaguardare la propria reputazione, fece credere di essere ancora sposa fedele.
Alla fine del maggio del 1815 un accordo segreto fra Austria, Russia e Prussia riconobbe a Maria Luisa il possesso dei territori di Parma, Piacenza e Guastalla, oltre al diritto di successione per suo figlio.
Il 7 marzo 1816 la febbricitante Maria Luisa, accompagnata dal suo amante, si mette in viaggio verso l’Italia, alla volta prima di Venezia, poi di Verona, ed infine di Parma, dove aspettava di trovarsi una città con gli abitanti esasperati per la completa mancanza di soldi e le esasperazioni politiche degli ultimi anni. Al contrario, il 20 aprile, Maria Luisa entrando a Parma trova davanti a sé una città festante, che dimostra da subito affetto e gratitudine nella consapevolezza di un futuro migliore.
Alle tre del pomeriggio tre colpi di cannone sparati dal castello ed il suono delle campane annunziano l’arrivo della duchessa. Da porta San Michele fino alla Cattedrale è schierata  in tutta la sua imponenza la truppa e la guardia nazionale, mentre la folla non smette mai di inneggiare ed applaudire. Nella Cattedrale si canta il Te Deum e viene data la benedizione, dopodiché Maria Luisa si ritira a Palazzo Ducale per riposare, ma per ben tre volte è costretta ad affacciarsi dalla loggia per appagare le richieste della folla festante.
In quella giornata di giubilo, pur nella sofferenza, partecipa anche il Rossetti, il quale insieme ad altri poeti del tempo, quali Jacopo Sanvitale, Antonio Cerati, Giordani, Bottioni ed altri, manifesta l’esultanza per l'arrivo della duchessa di Parma attraverso un’Ode saffica.
Le diciassette quartine, rappresentano il testamento letterario del poeta vastese, che incontrerà la morte soltanto due mesi più tardi:

Oh fausto annunzio!... oh gioja!... il cor devoto
    Quasi a Lei vola, che sua Diva implora:
    Ti bacio, o suol, ch’Ella passando onora,
E sciolgo il voto.

Di plausi echeggia l’aria innamorata,
    Or che le sue promesse a noi compìo,
    Da la comun speranza e dal desio
Sì sospirata.

Siedi, Donna immortal, siedi sul Trono,
    Che avidamente il raro onore aspetta,
    Mentre ognun stassi a Tua sembianza eletta
Umile e prono.

Le parole del Rossetti sono piene di enfasi e di calore verso l’imperatrice mai dimenticata, con la speranza che finalmente la città di Parma possa attraversare un periodo di tranquillità politica: La Tua provvida man fia, che rallegri / Contro il rigord’iniqua atra sventura / Color, che qual madrigna, ahi, fea Natura, / Mendici ed egri. La figura nobile e dolce della duchessa (L’uman To sguardo di bontate è segno) è garanzia di speranza per la città emiliana che in cambio non può offrire ricchezze o possedimenti, ma solo il calore di un piccolo stato: Tesor, possanza, impero, ahi! Non mi è dato / Offrirti, e genti di diverse lingue; / Ma un aprico, gentil, irriguo, pingue, Picciolo Stato.
L'autore chiude con il proprio giuramento di fedelta:

Io pronunzio al Tuo piè solamente
    D’obbedienza e fedeltate il Giuro.
    Deh lo serbi ogni secolo futuro
Gelosamente.

Aquila, vola, e narra al Sire intanto
    Ogni mio detto, che di gioja è figlio:
    Taci, se spunta sul paterno ciglio
Stilla di pianto.

Le sofferenze di Domenico Rossetti cessano definitivamente alle ore 8 e 30 del 7 luglio 1816, alla prematura età di 43 anni, nella sua casa al n. 21 della Strada S.  Nicolò, vicino la Cattedrale.
L’eco della scomparsa del letterato vastese si allarga presto in tutta la cittadina parmigiana, ed in particolare nei circoli letterali e culturali.Il giorno dopo aver reso l’anima al cielo, la Gazzetta di Parma, pubblica in prima pagina: «Ieri mattina, 7 del corrente Luglio, dopo non lunga malattia è mancato di vita il Signor Avvocato Domenico Rossetti, che nato in Istonio (il Vasto) il 10 di Ottobre del 1773, e percorse varie città e paesi sì d’Italia che fuori d’Italia, aveva da 13 anni stabilita la sua dimora in Parma».Questo il ricordo che il cronista fa del poeta Rossetti: «Egli godeva la fama di valente giureconsulto, e di assai colto ed erudito scrittore; ma le rime, che in diverse occasioni stampò, e in cui si scorge ubertà d’immagini, fervor d’estro, facilità e vaghezza di stile, gli ottennero e gli conserveranno diuturnamente il nome di buon poeta (…) Il Rossetti soleva dire, che doveva ai Parmigiani quel buon-gusto, che si era acquistato; e fu in Parma ch’ei lasciò di far versi estemporanei per tesserne unicamente di quelli che… successumscribentisotiaquaerunt, e che lungamente meditati vivono più lungamente».
Non sappiamo per quale motivo Domenico Rossetti non costruì una famiglia. Forse non sentiva nemmeno l’esigenza di una moglie e di una progenia, che in qualche modo potevano legarlo e far cadere  quel suo ideale di vita che si era costruito negli anni precedenti, dalla sua partenza dalla mai dimenticata Vasto, fino all’arrivo in una città più tranquilla, la sua seconda patria, Parma, quelle "ospitali sponde" che l’avevano accolto e maturato culturalmente.
Il cuore e, soprattutto, la mente del Rossetti erano occupati dalla voglia di conoscere, di apprendere, di crescere sempre più culturalmente: in tutti i luoghi dove si è recato, ha cercato sempre di inserirsi nei circoli culturali e di stringere amicizie con le persone che avrebbero potuto offrirgli qualcosa.
Tutti i nomi, spesso anche illustri, citati dal poeta vastese, nei suoi tanti viaggi, non devono essere presi come un "vantarsi", bensì come una prova di profonda stima e sincera amicizia che il Rossetti metteva in gioco: una partita a carte scoperte dal quale usciva sempre vincitore, arricchito della preziosa posta in palio.

Il triste annuncio arriva ben presto anche a Napoli, dove si trovava il fratello Gabriele ed a Vasto, la sua città natale, dove c’era la sua famiglia.
In occasione della morte del fratello, Antonio pubblica per i tipi della Tipografia Grandoniana di Chieti una Anacreontica, dedicata a D. Domenico Spataro, per la buona amicizia che lo legava con il defunto, ed inoltre perché «È nota a tutta questa nostra Patria la vostra letteratura, e la vostra innata inclinazione a favore de’ letterati». Questo il testo integrale scritto da Antonio:

Che veggio! Il Grande Apolline
      Da’ suoi destrieri tratto
      In cocchio d’or dall’Etere
      Scende ad Istorio ratto.
Già pensieroso arrestasi,
      Poi tocca la sua lira,
      E canta: il tuo Domenico,
      Vasto, più non respira.
Quel Figlio tuo dottissimo
      Già già ne’ Cieli è asceso;
      Ei ti colmò di Gloria,
      prove or ti paleso.
Quando da te partissene
Fè risuonar suo nome
Là nel Sebeto, e il Tevere
D’allor gli ornò le chiome.
Ei della lingua Ebraica
Maestro fu in sapienza;
Il prisco dir del Lazio
Sapea per eccellenza.
Parlava la Siriaca;
La Greca, e Gallicana,
La Svizzera, e Germanica,
Spagnola, ed Anglicana.
Scoprì, son anni tredici,
La Grotta a Montecalvo:
Si espose a un gran pericolo,
Ma pure uscinne salvo.
Ei fu nell’alta Italia
Al Foro rinomato;
Ei della Dora, e Emonia
Pastor venne acclamato.
Che più! Nelle Accademie
Fu membro, e Precettore,
Fu celebre Filosofo,
E massimo Oratore.
A tutti era piacevole;
Dall’uomo letterato,
Dal Nobile, dal Popolo
Fu sempre venerato.
Ed or la Parca barbara
L’à verde in Parma spento,
E Parma al suo deposito
A’ eretto un monumento.
Qui tace Apollo, e veggonsi
In altro cocchio d’oro
Dal Ciel Le muse scendere
Disposte in nobil coro.
Col loro Dio s’uniscono,
E i plettri rifulgenti
Toccando in suono armonico
Cantano questi accenti:
Intenso Nume fulgido,
Omai convien tornare
Rossetti il gran Domenico
Nell’etra ad esaltare.
Tosto i destrieri rapidi
Spingono i vanni al Cielo,
Ed ambo i cocchi covronsi
Da un denso azzurro velo.
Resta sorpreso Istorio,
Poi piange, e nel dolore
Sclama: Perduto ò un genio,
Che mi colmò d’onore.

Lasciata la terra natale in giovane età, Domenico non ne fece più ritorno. L’unico legame con i suoi familiari è rappresentata dalla corrispondenza, soprattutto con il fratello minore Gabriele, a lui molto legato. Ad oggi si conoscono solo sei lettere scritte tutte da Gabriele al fratello Domenico, conservate presso l'Archivio dell'Istituto del Risorgimento di Roma.
Tutte prive di date, le lettere furono presumibilmente scritte tra la fine del 1811 ed il settembre dell’anno successivo. L’elemento di continuità che attraversa tutto il carteggio è rappresentato dal progettato matrimonio di Domenico con una tale Maria Curti e dell’attesa di alcuni documenti non meglio precisati: «…L’annunzio del tuo matrimonio con la illustre fanciulla Curti – scrive Gabriele – annunzio che io ho dato alla nostra famiglia fin dal punto in cui il signor Panisi a me lo diè, ci ha rallegrati tutti e massime il fratello don Andrea, che gode finalmente che tu prenda tranquillo porto dai tuoi tanti viaggi e che si aggiunga un tanto splendore al lume del nostro sangue, e così nuovi rampolli, non indegni degli avi, spingono la nostra progenie all’ammirazione dell’età future: tu sai che la nostra stirpe ha sempre abbondato di grandi letterati, sai che la gloriosa catena non è interrotta, che il nome di don Andrea e forse (taccia quella simulazione che si usurpa il nome di modestia) il mio in questi lidi sono lucidi come la fronte del sole…».
Il matrimonio del fratello e la pubblicazione del poema epico La Vetturia, da imprimersi per i tipi bodoniani, erano l’occasione per Gabriele di riabbracciare, dopo tanti anni di lontananza, il fratello tanto amato. Ma sia il matrimonio, quanto la stampa del poema andarono a monte.
L’amore di Gabriele per il fratello è sempre alto e ben palese nelle sue accorate lettere. Alla notizia del futuro matrimonio del germano il suo cuore è pieno di gioia e annunzia l’immediata spedizione dei documenti richiesti appena gli fossero giunti da Vasto: «...io le spingerò a te con la rapidità del fulmine e tutte assicurate in posta».
Gabriele scrive spesso al fratello inviando anche piccoli schizzi e poesie cercando il suo consenso. Quando non giungevano risposte, o passava troppo tempo tra una missiva e l’altra, non perdeva occasione di rimproverare il fratello invitandolo ad essere più accorto nello spedire le lettere, volendo escludere a priori la malafede: «Ma cielo! perché sono io privo delle sospirate risposte? vanno esse smarrite? oppure... no, no: vanno smarrite»; ed ancora: «Caro Domenico mio, se è vero che ami il tuo Gabriele, se è vero che mistimi non indegno di te (ed io mel sento), prendi cautele tali che le tue risposte mi arrivino. Altrimenti ... chi sa che potrei, oh Dio! che potrei accusarne mai?».
In un’altra lettera Gabriele dimostra tutto il suo affetto per il fratello maggiore: «Io desiava che tu rivedessi adulto quel tuo Gabriello che tu lasciasti fanciullino e che tanto ama un degno fratello da cui è sicuro esser riamato, e da cui il suo destino sinora lo divide». Per l’occasione Gabriele acclude alla lettera un suo autoritratto in miniatura, a detta di molti, somigliante alla realtà, per far scoprire al fratello la sua nuova fisionomia di adulto, in quanto Domenico aveva lasciato la città natale quando il piccolo Gabriele aveva circa dieci anni e, quindi, in tutti questi anni di lontananza, lo ricordava nel fiore della fanciullezza.
Un altro elemento che emerge dal carteggio è la sollecitazione rivolta da Gabriele al fratello nel terminare e pubblicare al più presto l’ode in onore di Ottavio Marmile, Duca di Campochiaro, ministro di Polizia della città di Napoli: personaggio sicuramente importante ed influente, che forse avrebbe potuto aiutarlo nella definitiva archiviazione del caso, in quanto su Domenico pendeva ancora l’accusa di diserzione. 
Nell’agosto del 1812, per i tipi di Giuseppe Paganino di Parma, Domenico Rossetti pubblica la tanto attesa Ode Saffica dedicata ad Ottavio Mormile Duca di Campochiaro
L’Ode è accompagnata da una lettera dedicatoria dell’autore, datata 30 agosto 1812, in cui si esprime in questi termini: «Eccellenza. La fiducia, che la generosa benignità di Vostra Eccellenza inspirò al mio minor Germano [Gabriele], il rese ardito d’intitolarvi (e n’ottenne il vostro pieno gradimento) un poetico Inno nel vostro fausto ritorno dai colloquj di pubblica felicità, avuti nella Capitale dell’Impero con quell’Augusto, invincibile Monarca… Animato da uguale fiducia, oso io pure. Eccellenza, consecrarvi il lavoro di pochi versi, concepiti tra l’ammirazione delle vostre sublimi virtù, che una bugiarda Fama decada incessantemente, e il cui Nome con vera grandezza ne risuona altamente nell’animo. Degnateli, Eccellenza. D’un vostro propizio sguardo, ond’io possa riputarmi fortunato al pari del mio Germano, e gareggiare con lui ne’ dovuti sensi di sincera ed eterna gratitudine…».
Di notevole interesse sono invece due terzine: la prima dedicata alla famiglia, ed in particolare al fratello Gabriele: «Deh! Fratel mio, perdona: ah Tu se’ mesto, / Ch’io Te non cerchi, e inumidisci i lumi!… / Del tenero amor mio tutti ne attesto/Vindici i Numi». In una nota, Domenico parla dei suoi fratelli: «L’Autore ha tre fratelli Germani. Il primo è Andrea Rossetti, Canonico, personaggio di somma probità e dottrina, e zelantissimo Banditor del Vangelo. Il secondo chiamasi Antonio: egli non manca di estro poetico; però non ha potuto troppo coltivarlo per altre occupazioni, che ne lo han distolto. Il minore che è quegli, a cui si fa qui allusione, ha nome Gabriello, ed è poeta insigne: Egli dimora in Napoli, ed è uno de’ genj, che godono dell’onore di essere ammessi alla sapiente conversazione del sig. Duca».
La seconda terzina è rivolta al paese natìo: «Scorser tre lustri, e più ch’io te lasciai/ Fanciullo ancora un bel suol natio:/ Non vile pellegrin pel mondo errai,/ Auspice un Dio». Il ricordo del Rossetti è ancora vivo ed ancorato nel suo cuore e la speranza è quella di poterla riabbracciare un giorno: «Possa la Patria dell’immortale Pudente (coronato Poeta in Campidoglio nell’età di 13 anni omnibus sententiisjudicum, sotto il Regno di Trajano), al di lui ritorno, un figlio, che sebben lungi, l’ha sempre amata teneramente, e ne ha fatto echeggiare il glorioso nome per tante e sì diverse Regioni». Il Rossetti ricorda i numerosi viaggi fatti in Italia ed in Europa per inoltrarsi sempre più sull’arduo sentiero delle scienze, conversando con i più privilegiati Genj d’Italia, e d’Europa, quasi a giustificare la sua partenza dalla città partenopea. Altra nota d’interesse è la citazione di una lettera, datata 9 giugno 1812, da parte del sindaco della città adriatica, Massimino Barbarottae da altri qualificati personaggi, contenenti lusinghieri elogi al poeta vastese.
L’ode del Rossetti non è certamente una delle opere migliori: ancora una volta ci troviamo davanti ad una poesia encomiastica con l’unico scopo di aggraziarsi il noto personaggio, che avrebbe potuto fargli decadere l’accusa di diserzione. Infatti, il prode e saggio Eroe, come lo definisce il Rossetti, tra le sue peculiarità, oltre ad essere profondo filosofo ed oratore, «ha per compagne indivisibili delle sue azioni la retta giustizia, la clemenza, l’umanità».

Presso la Biblioteca Comunale "G. Rossetti" di Vasto, nel vol. IV dei manoscritti, si conserva una lettera scritta a Milano il 2 ottobre 1804, attribuita a Domenico Rossetti e indirizzata al fratello Gabriele.
Il cattivo stato della lettera e la sua dubbia paternità, ci impongono una certa cautela sull’esprimere un giudizio definitivo. Dai biografi non si fa cenno ad un soggiorno di Domenico nella città lombarda: sappiamo che nel 1804, prima di trasferirsi a Parma, il Rossetti soggiorna undici mesi nel capoluogo piemontese, ma non ci sono notizie di conferma di un suo eventuale soggiorno a Milano, seppur per poche settimane, anche se ciò non è totalmente da escludere. 
L’inizio della missiva è molto confuso e incomprensibile, fatta con tono di rimprovero verso il fratello minore: «Più volte io ti ho ripetuto, che per toglierti dall’animo quelle cattive disposizioni che si opponevano a’ tuoi progressi, mentre non furon mai da tanto validi i miei raddoppiati sforzi, un grand’errore da tua parte vi sarebbe riuscito. Or bene dileguato il prestigio che ti affascinò gli occhi, conoscerai già che un maggiore non potevate commetterlo…».
L’autore della lettera passa a ricordare i primi insegnamenti dati con la speranza di avviarlo ad una nobile carriera: «…Richiama in seguito alla memoria le tanto luminose idee, di cui procurai arricchir tua mente, pria sulla scienza dell’uomo e sulle facoltà morali… indi su fatto il complesso di tutti i rami dell’umano sapere, e de varj poteri o arti che ne derivano, a loro subordinazione; più particolarmente alfine sulla bella arte del disegno considerata come tanti linguaggi; sulle verità generali e primieramente che riguardano l’attività inalterabile della materia e i fenomeni maggiori della natura e sue leggi; sulla geologia e geografia… Rivolgi finalmente l’attenzione tua sopra gli avanzamenti che io ti preparavo, e senza portar troppo oltre lo sguardo, arrestato sulla situazione vantaggiosissima, che ti veniva da me assicurata nel Vasto dopo venti altri mesi soltanto…».
Nella lettera si fa cenno anche all’amicizia con il famoso Luigi Valentino Brugnatelli, che gli avrebbe potuto giovare nello studio della scienza chimica, e sappiamo che il Rossetti era molto interessato a questi argomenti, anzi, come abbiamo visto nella Grotta di Monte-Calvo ed in altre pubblicazioni, possiamo dire che aveva una buona conoscenza della materia.
Dopo altre righe assolutamente indecifrabili, l’autore chiede di consolare "la madre nostra", e augura "senno e coraggio" per la prossima partenza fissata per il 15 di ottobre verso l’Università di Napoli; e, sappiamo, che Gabriele partì per la capitale del Regno proprio nel 1804, a ventun'anni, per dedicarsi alla pittura.
La firma è parzialmente illeggibile, ma si riesce ad intuire Tuo amatissimo fratello Francesco Paolo... Questo allontanerebbe la paternità da Domenico Rossetti, ma non è del tutto da escludere l'uso di un nome falso, a causa dell'accusa di diserzione.

Il giusto riconoscimento alla memoria del poeta vastese da parte della sua città natale arriverà soltanto dopo oltre cinquant’anni dalla morte: una lapide, eretta per pubblica sottoscrizione nel giugno del 1869, verrà posta all’ingresso del cimitero comunale, accanto a quella del fratello Antonio.
L’iscrizione dettata dal medico e letterato vastese Giacinto Barbarotta verrà alquanto modificata rispetto all’originale, in quanto monca del cappello iniziale e della conclusione, in cui l’epigrafista vastese ricorda ai Parmigiani che il corpo di un cittadino istoniense si trova nella loro terra e li invita, per amore dell’Italia, ad erigere un monumento in suo onore.
Questo è il testo modificato usato per la lapide:
DOMENICO ROSSETTI
PER ESTRANIE RAGIONI PEREGRINANDO
COLSE FAMA NON PERITURA
DI MEDICO GIURECONSULTO TEOLOGO FISICO
IN POETARE EBBE ESTRO IMPROVVISO
PENSIERI SUBLIMI ESPRESSIONI VIVACI
FU L’UOMO DEI DOTTI
STIMATO PER LE POLITICHE COMMESSIONI
FESTEGGIATO DALLA STUDIOSA GIOVENTU’
UNO DEI GENI MIRACOLOSI
CHE AD ESTASI BELLISSIMA DI GLORIA
ISPIRATI DALLA VOCE DELL’ONNIPOTENTE
RALLEGRANDO I MORTALI
IN QUESTA VALLE DI PIANTO INTERMINABILE:
VISSE 40 ANNI - MORI’ IN PARMA A DI’ 7 LUGLIO 1816
OH IL DEGNO UOMO CHE SI RIMPIANGE!

Siamo giunti al termine del nostro speciale in occasione del bicentenario della morte di Domenico Rossetti, illustre figlio di Vasto, nella speranza di aver reso il giusto merito ad un personaggio poco conosciuto, che continua, ancora oggi dopo tanti anni, a sorprenderci. Domenico Rossetti è una scoperta continua: grazie al web ed alle ricerche nelle principali biblioteche italiane, tanto materiale è emerso, ma le ricerche sono ancora lunghe e potrebbero portare a sorprendenti risultati, in particolare se venissero alla luce i tanti manoscritti e lettere, come riferito da alcuni storici, ma di cui finora non è stata trovata traccia.

Lino Spadaccini











                                                                                                                                            

Nessun commento: